"Il giovane Michelangelo era artista ambizioso e provocatore. Il suo rispetto per i resti archeologici dell’arte greco-romana era indiscutibile e precocemente filologico, se è vero che si rifiutò, dopo che venne rinvenuto, di completare il Torso del Belvedere. Ma credeva anche che la scultura moderna fosse ormai giunta all’altezza dell’antica e che il culto feticistico dell’archeologico, presso i collezionisti e i mecenati del tempo, la stesse penalizzando. Una performance, considerabile a tutti gli effetti anticipatrice del Concettualismo, dimostrò quanto il sospetto fosse fondato: un piccolo Cupido dormiente di Michelangelo, oggi disperso, venne sotterrato, mettendolo in tal modo su un piano paritetico con i resti archeologici. Una volta dissotterrato, con tutto il suo sporco addosso, il Cupido giunse a Roma e venne comprato dal cardinal Riario, credendolo antico; saputo che era stato fatto da un moderno toscano,lo rifiutò, ma non mancò di invitare nell’Urbe l’abile scultore.

Vittorio Sgarbi

A vedere le sculture della friulana Bernarda Visentini, subito mi è venuto in mente questo conosciuto aneddoto della storia dell’arte. Un richiamo in fondo non immotivato, malgrado la distanza della Visentini da Michelangelo e dal Rinascimento in genere, ideologica più ancora che cronologica o artistica. Se Michelangelo e i suoi coevi concepivano il passato storico secondo un unico punto di vista, l’antichità classica, ritenendo barbaro tutto ciò che l’aveva preceduta e seguita, la Visentini lo considera rinvenendo l’age d’or nella Preistoria, meglio ancora in quel momento virginale, all’alba di una nuova, più evoluta avventura per il genere umano, in cui l’arte, alle prese con i primi abbozzi di linguaggio formale, cominciava a segnare le prime, timide distanze dalla dimensione puramente antropologica. Nell’evocare questo stato primigenio quasi con la nostalgia di un paradiso perduto, forse confidando ancora nel mito immarcescibile del bon sauvage, le opere della Visentini, grande appassionata di civiltà primordiali, in particolare del Nord Europa, configurano una sorta di archeologia immaginaria in cui i rimandi all’arte arcaica, nettamente prevalenti, stabiliscono comunque una relazione colloquiale con le suggestioni della scultura novecentesca, in primo luogo, e non poteva essere altrimenti, con quella che più ha guardato all’arcaismo come a un modello per eccellenza dell’espressione moderna. Così, per esempio, in Dea Bianca, col corpo femminile stilizzato che viene inquadrato da due onde intagliate su blocchi dagli spessori consistenti, possiamo vedere sia la scultura pre-cicladica, nei primi tentativi egei di scontornare una figura muliebre govanile in alternativa all’ostentata corpulenza della Dea Madre, soggetto atavico carissimo alla Visentini, sia il biomorfismo di Alberto Viani; e analogamente, concentrandoci solo sul moderno, nelle steli antropomorfe, disposte in ordine paratattico, possiamo avvertire l’eco di Melotti, così come quello di Pietro Consagra nelle silhouettes in falso rilievo, tendenti al bidimensionale, che vengono cavate a risparmio dal vuoto.

Più ancora di quanto non facciano quei maestri del Novecento, però, la Visentini sembra interessata a recuperare il senso storico più appropriato dell’archetipo, e, con esso, la motivazione ancestrale che ha determinato la necessità per cui dall’idea viene la forma, e dalla forma la materia lavorata, la cui particolare oggettualità ha la funzione sociale di identificare, nella logica della società tribale, un concetto di comune condivisione.

Sicché, se l’archeologia della Visentini, nell’essere non verificata e non verificabile dalla scienza, ci appare comunque possibile, lo è non tanto rispetto al passato, di cui costituisce pur sempre una reinvenzione fantastica, per quanto dettata da considerevoli conoscenze di base, ma rispetto al futuro, facendosi in qualche modo profetica, in un tempo e in una civiltà che potrebbero ancora venire (perché no, anche al di fuori del nostro pianeta), di mentalità e modalità espressive ricomparse sullo scenario umano, forse proprio per il fatto di ignorare i suoi precedenti, all’insegna del più circolare degli eterni ritorni.

Vittorio Sgarbi

E allora, perché la Visentini non interra, michelangiolescamente, le sue riuscite lastre di Vingen, nelle quali il riferimento alla preistoria scandinava vale come a quella sahariana o aborigena, e come tali, quindi, fuori da una precisa nozione di tempo o di geografia, per farle diventare concretamente archeologia fra altra archeologia, reale o virtuale, e poi riesumarle, finalmente intrise della patina di antico a lungo agognata, in quella che sarebbe una vera e propria simulazione di futuro prossimo venturo?"

prof. Sgarbi Vittorio - Critico d’arte, Porto Franco, 2014