"Bernarda Visentini e la sostenibile leggerezza delle pietre"
Nell’introduzione ad un mio recente volume sottolineavo come tutti noi (artisti, storici dell’arte o semplici fruitori) nel creare nuove opere o nel ricevere le opere del passato e trasmetterle, modificandole, alle generazioni future, lasciamo anche una traccia tangibile di noi stessi: e quanto più questa “presenza” è individuabile e sofferta, cioè quanto più l’artista sa permeare i suoi lavori dei propri conflitti interiori, fino ad identificarsi completamente con gli oggetti creati, tanto più la sua produzione ci appare significativa. Basti pensare a Caravaggio, Van Gogh o Frida Kalo e a quanto i loro dipinti, oltre ad un eccezionale valore estetico, abbiano anche il valore aggiunto di profonda testimonianza dell’intimo e sofferto “vissuto” di chi li ha creati. Mentre, al contrario, andando indietro nel tempo, per esempio in epoca medievale, quando ancora la concezione dell’artista “genio” e “creatore” non si era affermata, questa presenza soggettiva ci appare meno, o addirittura affatto, percepibile. Ma, quanto a valore aggiunto, i grandi capolavori del Medio Evo spesso ne hanno uno non meno importante di quelli prima indicati, in quanto diventano testimonianza collettiva di un’intera comunità, sia essa laica o religiosa: lo attestano le grandi cattedrali gotiche, i palazzi comunali delle città italiane, o andando a singole specifiche opere, la Maestà di Duccio di Buonsisegna o l’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. Al giorno d’oggi, comunque, scolpire una figura umana o dipingere una natura morta o un paesaggio è attuale tanto quanto esporre una installazione concettuale. Così come un dipinto o una statua completamente astratti possono esprimere una profonda ribellione contro la società contemporanea almeno quanto se non più di un’opera di forma e contenuto realistici. Ne è un esempio Pollock con la sua critica radicale nei confronti dell’alienazione capitalistica del suo tempo, arte dunque anch’essa a suo modo ‘impegnata’, almeno quanto i murales di Diego Rivera. E non sarebbe d’altra parte molto parziale ricondurre questi ultimi, così pieni di simboli ancestrali, fermenti magici, allucinazioni poetiche, richiami alla tradizione Maya, entro la troppo semplicistica etichetta di “figurativi”? L’arte vive del resto del suo indissolubile rapporto tra mente e mano, tra lavoro e intelletto. Per tanto la vera distinzione non può più porsi tra artisti figurativi e artisti astratti o concettuali, ma tra coloro che sanno usare insieme la mente e la mano, qualsiasi tipo di arte facciano e coloro che non sanno farlo. Così come non vi è alcuna incompatibilità o dualismo tra razionalità e fantasia ed entrambi questi elementi sono necessari per la perfetta riuscita di un’opera d’arte. Quando ho scritto queste riflessioni non conoscevo ancora Bernarda Visentini, eppure quando ho visto le sue opere mi è subito apparso chiaro che le mie parole calzavano a pennello con la sua produzione scultorea. E va subito sottolineato come le sue statue non sono fatte per essere contemplate singolarmente, ma vanno ammirate nel loro complesso, come il dipanarsi di un discorso, o se si vuole di un racconto, insieme autobiografico e universale, italiano nella sua prima essenza, che ci rimanda addirittura a Nicola Pisano ed Arnolfo di Cambio, e nel contempo pieno di riferimenti che spaziano dalla Dordogna-Perigord alle zone sperdute della Norvegia, dalle Orcadi all’Africa sub-sahariana o addirittura all’isola di Pasqua. Esse sono “belle” non nell’accezione edonistica e tradizionale del termine, perché il diritto alla semplicità assoluta e primigenia è stata una delle principali conquiste estetiche contemporanee, ma perché piene di un fascino astratto e primordiale che ne costituisce la più autentica peculiarità. Del resto nemmeno i Prigioni michelangioleschi o la stessa Pietà Rondanini sono “belli” nel senso classico del termine, anzi forse sono la prima compiuta espressione del “brutismo” nell’arte occidentale. E il riferimento a Michelangelo non è certo casuale perché nessuno scultore venuto dopo il Buonarroti, ne sia cosciente o meno, ha potuto o voluto prescindere da quel contrasto tra forma e materia, ordine e caos, ragione e sentimento, di cui la statuaria michelangiolesca è intrisa. Contrasto appena accennato nello Schiavo del Louvre, levigatissimo e quasi interamente finito, ed esasperato invece nel supposto Atlante, povero lacerto di tronco umano oppresso da un peso quasi insopportabile eppure anch’esso assolutamente compiuto nella sua incompiutezza, pronto a sfidarci e venirci incontro non meno del suo così più perfetto “collega”. A questo proposito giungono opportune le considerazioni di Vittorio Sgarbi che scrive: «Se Michelangelo e i suoi coevi percepivano il passato storico secondo un unico punto di vista, l’antichità classica, ritenendo barbaro tutto ciò che l’aveva preceduta e seguita, la Visentini lo considera rinvenendo “l’age d’or” nella Preistoria, meglio ancora in quel momento virginale, all’alba di una nuova, più evoluta avventura per il genere umano, in cui l’arte, alle prese con i primi abbozzi di linguaggio formale, cominciava a segnare le iniziali timide distanze dalla dimensione puramente antropologica. Nell’evocare questo stato primigenio quasi con la nostalgia di un paradiso perduto, forse confidando ancora nel mito immarcescibile del bon sauvage, le opere della Visentini, grande appassionata di civiltà primordiali, in particolare del Nord Europa, configurano una sorta di archeologia immaginaria in cui i rimandi all’arte arcaica, nettamente prevalenti, stabiliscono comunque una relazione colloquiale con le suggestioni della scultura novecentesca, in primo luogo, e non poteva essere altrimenti, con quella che più ha guardato all’arcaismo come a un modello per eccellenza dell’espressione moderna». Tornando al tema del “bello” mi viene sempre in mente una memorabile lezione del mio Maestro Giulio Carlo Argan dedicata al celeberrimo concorso per le formelle del battistero di Firenze del 1401 ed al confronto tra Brunelleschi e Ghiberti. «E’ più bello l’Isacco di Ghiberti o di Brunelleschi? Certo, quello di Ghiberti. Quale è plasticamente più forte? Certo quello di Brunelleschi. Per Brunelleschi il valore artistico non coincide con il bello di natura, per Ghiberti i due valori sono una cosa strettamente unita». D’altronde noi europei dovremmo spogliarci del nostro eurocentrismo che ammette che il “bello” non sia di nostro esclusivo dominio. Di recente, per esempio, ho fatto un viaggio nello Sri Lanka dove mi sono imbattuto in alcune delle statue più belle che abbia mai visto, naturalmente raffiguranti tutte Budda: alcune gigantesche, altre meno, con la divinità eretta, seduta, sdraiata, scavata interamente nella roccia o a tutto tondo, e parlo di luoghi a me fino ad allora sconosciuti, come Aukana, Polonnaruwa, Dambulla e di epoche oscillanti dal I° secolo avanti all’XI dopo Cristo. Ma naturalmente la loro bellezza e sacralità non è né inferiore né superiore a quella dei nostri capolavori, è semplicemente incommensurabile con essi. Ed ecco uno di quelli che io considero tra i maggiori meriti di Bernarda Visentini, cioè il fatto di essere aperta e ricettiva verso epoche, culture e mondi assai lontani ma che l’artista sa sempre ricondurre entro confini e temi che sono assolutamente i nostri, come acutamente già osservato da Rossana Bossaglia: «E’ da circa un secolo che l’arte contemporanea ha intrapreso l’intenso e articolato colloquio con la cosiddetta arte primitiva, o comunque con le matrici arcaiche della figurazione. E questo filone non si è mai più estinto, soprattutto nella pratica della scultura, anche dopo il concludersi delle avanguardie storiche. Ma Bernarda Visentini, tra i contemporanei, non solo mostra di ispirarsi con passione ed immedesimazione a quelle forme elementari e sintetiche, bensì di volerne mantenere i significati rituali e simbolici, di riviverne articolazioni espressive, specie quelle delle culture nordiche e della Mitteleuropa. Avvantaggiata dall’aver riflettuto su queste fonti iconografiche con attenzione scientifica, ella non fa quindi un discorso puramente viscerale, ma rivisita archetipi e forme evolute nel tempo con sensibilità storica…Le sue sculture, e le opere dalle tecniche diverse, che raffigurano le “grandi madri”, animali dalla forte valenza simbolica (serpenti, civette, arieti), dischi, scudi e così via, colloquiano con i temi ancestrali, immedesimandosi con i loro significati perenni ma esprimendosi in un vitalissimo linguaggio personale», come conferma la stessa artista che scrive: «Con la maturità e le esperienze di viaggio che ho sempre amato, ho approfondito la ricerca artistica, soprattutto scultorea, cui sono giunta per naturale evoluzione. Grazie a diversi siti archeologici da me esplorati e ad un contatto sempre più profondo con la Natura, ne ho colto gli affascinati messaggi allusivi alla spiritualità dell’uomo preistorico che, immerso nell’osservazione dell’universo, vedeva nella natura stessa la Dea Madre creatrice e rinnovatrice di vita. La mia ricerca è diventata, sia sul piano archeologico che scultoreo, impegno e passione autentici cui mi sono dedicata a tempo pieno dal 1980. Allora sono riuscita ad armonizzare, per un processo naturale di maturazione artistica, l’idea, la pittura, il segno con la forma plastica. Per quanto concerne l’idea, cioè il discorso concettuale insito nelle mie opere, attraverso una continua introspezione ho voluto recuperare l’energia primordiale che è in ciascuno di noi. Ho percepito le pulsioni dell’umanità quali forze vitali: il desiderio di farle emergere dal passato e dall’oblio assieme all’intenzione di recuperare le radici dell’uomo per farle rimanere nel presente e di esse permeare il futuro, è quello che ha animato fin dal primo momento la realizzazione dei miei lavori. E mi ha sempre affascinato la purezza e la profondità del rapporto privilegiato dell’uomo preistorico con il mondo animale e vegetale ed il suo bisogno di trascendenza che si coglie nelle offerte votive, nella scelta dei luoghi dove celebrare i riti spesso rivolti a rafforzare la coesione dei gruppi, nella solidarietà di gruppo e nel rispetto delle tradizioni. L’uomo di allora era conscio sia di dipendere dalla natura sia della presenza di un essere intangibile, capace di governare l’universo a cui consegnarsi; si rivolgeva al sovrumano celebrando la figura della Dea Madre dispensatrice di vita, ma anche portatrice di morte, venerata per tutto il ciclo della vita stessa». L’arte primitiva ci riconduce inoltre ad un’altra riflessione fondamentale. Ho appena visitato i Petroglifi di Qorastan, in Azerbaigian, tra i più interessanti e meglio conservati del mondo, incisi nella roccia migliaia di anni fa ma che ancora ci parlano del primordiale bisogno dell’uomo di comunicare attraverso i segni, prima ancora che attraverso le parole, circa il suo rapporto con la natura, con la “madre terra” appunto, e di propiziarsi il suo aiuto in vista dei suoi bisogni primari: la caccia, la procreazione, il regolare svolgersi dei cicli atmosferici. Sono figure di animali, soprattutto tori resi con assoluta perizia, scene di caccia e di danza, figure appena abbozzate di donne sempre incinte. Esse ci fanno toccare con mano quanto sia ancora attuale la celeberrima arringa di Leonardo in favore dell’arte figurativa: «Quella scienza è più utile della quale il frutto è più comunicabile. La pittura ha il suo fine comunicabile a tutte le generazioni dell’universo, perché il suo fine è subbietto alla virtù visiva, e non passa per l’orecchio al senso comune con il medesimo modo che vi passa per il vedere. Adunque questa non ha bisogno d’interpreti di diverse lingue, come hanno le lettere, e subito ha satisfatto all’humana specie, non altrimenti che si facciano le cose prodotte dalla natura». Venendo finalmente allo specifico della produzione della Visentini, non ha senso chiedersi se la sua scultura sia astratta o figurativa, perché la nostra artista parte sempre dalle figure umane o comunque da elementi naturalistici, per poi spesso scarnificarli o rimodularli, ritrovarne l’essenza, l’archetipo, come già osservato dalla Bossaglia. E non si tratta mai di elementi completamenti astratti, cioè lontani o esenti dalla realtà, anche quando ci appaiono nella più geometrica e stilizzata delle forme, perché vengono ricondotti poi al dualismo primigenio di maschile e femminile, perennemente in conflitto e perennemente in cerca di una alchimistica coniunctio, quella unione, appunto, in cui tutto si ricompone e da cui tutto proviene. E mi riferisco a Domovoi (fig.1), dove un semplice cubo contiene al suo interno un sinuoso serpente, che ritroviamo anche in Sigillo ad evocare il diabolico tentatore o piuttosto, secondo me, l’alchemico ouroboros che si morde la coda e allude alla ciclicità imperitura delle fasi naturali. O a Glifo (fig.2), dove due fessure squarciano la materia come fossero gocce di pioggia giganti, mentre altrove l’equilibrio compositivo è raggiunto attraverso una felice combinazione di rette e di curve, e attraverso il segno che incide il cemento come geroglifici impressi su di un antico papiro, segni che ritroviamo in Stele (fig.3) ma che rimandano questa volta al complesso simbolismo della cultura aborigena australiana. In Sul corpo della dea (fig.4), invece, i concetti di pieno e di vuoto si rovesciano e la statua diventa il contenitore, mentre il vuoto o piuttosto quello che esso lascia intravvedere, sia un paesaggio o sia la sala di un museo, diventa il contenuto. Nel bellissimo Girotondo preistorico (fig.5), poi, abbiamo un trittico insieme ascetico e sensuale in cui torna ancora il tema fondamentale della maternità come fonte primaria di ogni energia vitale e che è poi in definitiva l’elemento che riconduce l’arte “laica” della Visentini entro i confini di una religiosità ampia e onnicomprensiva che ritroviamo nella Dea Uccello (fig.6) dove linee rette e linee curve si incrociano in un andamento spiraliforme e attraverso una superficie incisa per diagonali concentriche che ci riporta proprio al tema dell’eterno ciclo vitale della natura. Dicevo prima che non ha senso chiedersi se l’arte della nostra scultrice sia figurativa o astratta e potrei ora aggiungere che non avrebbe neppure senso chiedersi se le sue siano pitture scolpite o statue dipinte. E così in Origini (fig.7) o in Spirali (fig.8) il segno graffiato e graffiante si fa pittura mentre le steli di Ideogrammi in sequenza (fig.9) si snodano come enormi pagine che ci raccontano del grande mistero della natura, che ritroviamo in Omaggio alla grande madre (fig.10), dove abbiamo al centro una candida figura femminile di un fascino primordiale, senza testa e senza braccia, proprio come nei petroglifi di Qobustan, e intorno, a renderle omaggio, una serie di pietre colorate che sembrano intonare una danza propiziatoria. Per concludere, nell’arte e nella simbologia visentiniane gli elementi geometrici primari, il quadrato, il cerchio, la spirale, sono entità in continuo movimento tanto da spingerci verso una nuova grammatica della percezione visiva. Del resto solo nell’arte due più due non fa necessariamente quattro; solo nell’arte le scienze esatte divengono qualcosa in cui l’unica certezza dell’accadere di un evento è nella possibilità stessa che esso avvenga. Ed è l’esistenza stessa di questa possibilità, di un fattore obliquo che scompagini un ordine astrattamente precostituito che costituisce la libertà dell’arte e della vita: ciò che distingue l’individualità creatrice dal computer produttore di forme precostituite. "
prof. em. Rossi Sergio - Critico d'arte, "Bernarda Visentini e la sostenibile leggerezza delle pietre", in "Theory and Criticism of Literature & Arts" - Novembre 2018